Recovery Fund: Cosa farci?

Cosa fare con i miliardi prestati dall’Europa?

Sono più 30 anni che chi ha intrapreso gli studi di economia e in seguito ha avuto una carriera pubblica o privata di economista, ha studiato, fatto ricerca, scritto articoli scientifici o divulgativi e scritto libri di testo ha una idea fissa in mente, un dogma indiscutibile: il mercato privato, se lasciato liberamente operare, riesce a gestire qualsiasi sistema economico al meglio per tutti.

Per questi economisti lo Stato naturalmente esiste e, se si dedicasse solamente ad attività puramente di sostegno all’economia di mercato e alle frange di attività che al mercato privato non interessano, essenzialmente i poveri involontari (cioè non per loro “colpe”), potrebbe avere un ruolo positivo.

Purtroppo per ragioni storiche, conflittuali, politiche, culturali ecc., quasi tutte con basi economicamente irrazionali, lo Stato (ogni Stato) interviene direttamente nel sistema economico intraprendendo attività che benissimo e meglio sarebbero svolte dai privati (dal mercato libero). A causa di questi interventi la situazione di benessere collettivo è a un livello inferiore a quello che si sarebbe avuto senza questi interventi.

Qual è il ruolo di un economista, quale che sia la posizione che occupa? Naturalmente è quello di battersi culturalmente, politicamente e nella sua attività contro questa depravazione e diffondere il verbo liberista del “più mercato meno Stato”!


È questa una visione esagerata e caricaturale al limite della calunnia? Sì certo, tantissimi di questi economisti sono bravi, intelligenti e con curriculum straordinari, sicuramente molti (forse?) non si riconosceranno in questa rozza caricatura e cercheranno di dimostrare con modelli elaborati in cui ci sono poche parole ma molte formule, un po’ di numeri e sofisticate elaborazioni statistiche che: è proprio vero, il modello lo conferma, bisogna che ci sia meno Stato e più mercato!


Il nostro paese, come tutti gli altri, si trova ad affrontare questa crisi: per batterla ci è stato permesso dall’Europa di indebitarci a livelli molto alti sia con il mercato che con l’Europa stessa. Le prime risorse arrivate sono state usate e si stanno usando per colmare un po’ di buche nei settori più colpiti dalla crisi e dalla chiusura per arginare il virus. Sono interventi utili e indispensabili la cui efficacia è essenzialmente legata alla capacità dell’amministrazione pubblica (la burocrazia) di gestire l’emergenza.


Ma oggi si chiede da tutte le parti molto di più! Il prossimo indebitamento (il Recovery Fund) va usato non per fini emergenziali ma per fini strutturali, in modo tale da non solo favorire la ripresa dal punto di vista quantitativo, ma anche qualitativo.

Come si fa? Che cosa si fa? La mia impressione è che nessuno lo sa, non solo perché il tema è difficile, ma soprattutto perché l’ideologia al comando non è culturalmente e tecnicamente in grado di affrontare il problema.

Il problema è semplicemente identificabile col termine PROGRAMMAZIONE, cioè ruolo centrale di comando dello Stato nell’economia! Ma quale economista al di sotto di 70 anni d’età ha idea di che cosa si tratti? Chi di loro conosce ha mai letto, studiato o addirittura capito economisti come Sylos Labini, Fuà, Caffè, Graziani, Sraffa, De Cecco, Napoleoni, ecc.?

I nostri “giovani” economisti (quasi tutti di preparazione dottorale anglosassone) hanno studiato su libri di testo nei quali anche la teoria keynesiana o era sintetizzata in una paginetta oppure era stravolta completamente da inutili complicazioni che la riportavano nell’ambito neoclassico, e in cui il Dio Mercato e il Satana Stato (sotto forma di regolamentazioni, di interessi politici e di spesa pubblica) erano in lotta permanente, altro che programmazione!

Come si può chiedere a loro di cambiare completamente il punto di vista, ribaltando quella impostazione teorica su cui si sono formati, hanno scritto e fatto carriera?

Questa è la situazione oggettiva dello stato del potere culturale ed economico in Italia. Per non parlare delle associazioni padronali le quali, con i loro media e centri studi si abbeverano abbondantemente (spesso, contrariamente a molti accademici, in cattiva fede) alle peggiori impostazione liberiste per difendere e aumentare i loro interessi di bottega.

Insomma, l’attuale classe dirigente italiana che detta legge sui temi economici è assolutamente incapace ad affrontare questa crisi con un approccio programmatore che da più parti gli si richiede. Penso che per molti non sia per preclusione aprioristica, ma è proprio la loro incapacità e impossibilità psico-culturale che gli impedisce di ragionare in una situazione in cui si richiede che sia lo Stato a decidere tutto o quasi in tema di intervento diretto e in qualche modo autoritario sull’economia del paese!


Ma è possibile che non esistano eccezioni? Certo che esistono. Ci sono centinaia di ottimi economisti (forse non tanto giovani ma ancora in attività) con preparazione e idee che potrebbero dare un grosso contributo di novità al modo di affrontare questa crisi. Ma sono “bloccati” da tre limiti che mi sembrano insuperabili:

1)    La gran parte di questi economisti non occupano posti dirigenziali o di potere. Anche nel luogo della loro attività quasi sempre il loro peso è marginale, tanto che spesso si racchiudono in gruppi “carbonari” in cui cercano, con forti contrasti fra loro, di partorire idee spesso buone ma che non avranno mai la capacità di incidere sulla realtà.

2)    La possibilità e la capacità delle idee e delle proposte di questi economisti di venire recepite dalla politica sono scarsissime. I politici non economisti (indipendentemente dalla loro appartenenza partitica), sono di due categorie rispetto all’economia: ci sono quelli che si formano leggendo svogliatamente i titoli di articoli economici scritti dagli economisti liberisti e quelli che ricorrono a consulenze di economisti liberisti. In questi ultimi tempi un gruppo (sparuto) di economisti, nel tentativo di avvicinare le loro idee in genere non conformiste e in alcuni casi anche bislacche, si sono accostati alla politica, con un certo successo, attraverso i cosiddetti “sovranisti antieuropei”, rappresentati essenzialmente dalla Lega. La loro attività, che in alcuni casi li ha portati a entrare come parlamentari, è da ritenersi assolutamente fallimentare in quanto al massimo sono stati utilizzati nei dibattiti come aggressivi interlocutori nei confronti di politici o economisti europeisti di scarsissimo peso; ma le loro posizioni, alcune delle quali effettivamente alternative al liberismo più sfrenato, non hanno assolutamente toccato il punto di vista politico e gli interessi economici difesi dalla Lega, che sono rimasti in modo inossidabile liberisti, filo-padronali (grandi e piccoli), contro i poveri e i lavoratori in genere.

3)    Il terzo limite è quello della Pubblica Amministrazione. Dobbiamo riconoscere che, probabilmente da sempre, la PA in Italia non ha brillato per efficienza e capacità. La selezione del personale ha badato più a interessi legati al consenso elettorale nei vari livelli della politica che al ruolo che erano chiamati a svolgere. Ma oltre a questo fenomeno non si può negare che la struttura di regolamenti, la divisione dei compiti, l’organizzazione del lavoro ha assolutamente agevolato la già scarsa propensione ad una attività efficiente dei lavoratori pubblici. A tal punto che, anche coloro che si proponevano di svolgere il proprio ruolo in modo serio, in breve tempo erano costretti a adeguarsi all’ambiente disastroso in cui venivano collocati. A tutto ciò va aggiunto il fatto che negli ultimi tempi la figura del lavoratore pubblico, del suo ruolo e in generale del ruolo della Pubblica Amministrazione ha subito un declassamento economico, culturale e di immagine enorme, spesso sponsorizzato da politici e organi di informazione che erano proprio coloro che vedevano ogni intervento pubblico come pericolo per i propri interessi. Insomma, pensare che la struttura attuale della PA possa essere in grado non solo di elaborare, ma semplicemente di gestire, misure di interventi strutturali di medio-lungo periodo frutto di una organica programmazione è una illusione.


Questo a mio avviso è il quadro che ci troviamo di fronte. Un senso di pessimismo e frustrazione che mi sembra sia abbastanza generalizzato. L’idea di una possibilità di miglioramenti della struttura economica italiana sembra rimanere frustrata, con il rischio di trovarci un peso del debito con una struttura economica rimasta debole, incapace di far fronte agli obblighi che ne deriveranno.

Quali sono le mie “proposte” sulle cose che realisticamente si potrebbero fare in questa situazione? Sono un economista ultrasettantenne, di quelli che hanno studiato e sono cresciuti “abbeverandosi” alle idee degli economisti di cui ho parlato, ma mi sento un po’ ridicolo a scrivere proposte e “linee guida” su cosa si dovrebbe fare, proposte che non verranno mai lette da nessuno che abbia un qualche potere effettivo di intervento.

Mi limito quindi a dire una cosa molto semplice: si dice comunemente che “il pesce puzza dalla testa”, ma in questo caso un intervento sulla testa (cioè su quelli che comandano) penso sia impossibile o improbabile : cambiare su questi temi la testa ai politici e agli economisti al comando è difficile e improbabile [Una piccola speranza che, dalla probabile riduzione del numero dei parlamentari e dalla nuova legge elettorale che ne dovrebbe conseguire, ci sia un possibile effetto di miglioramento della selezione della classe dirigente ce l’ho. Vedremo come andrà.], dato il potere culturale e mediatico che hanno fra le mani, indipendentemente dal partito politico a cui fanno riferimento. Allora che rimane? La Pubblica Amministrazione, la burocrazia, può essere cambiata? Io penso che sia una opzione non impossibile per due motivi: 

1)    Sembra interesse di tutti o quasi un funzionamento più efficiente della PA, anche dei liberisti e dei privati che vorrebbero sostituirsi ad alcuni funzioni statali. Le forze politiche dell’attuale governo avrebbero una possibilità buona, volendolo, di effettuare cambiamenti, semplificazioni e velocizzazioni nel funzionamento della PA. L’ostacolo più duro verrà dalla decentralizzazione della struttura burocratica (Regioni e Comuni) che invece di avvicinare la burocrazia al cittadino si sono dimostrati solo centri di potentati politici. Credo però che gli strumenti politici e istituzionali per intervenire ci siano e potrebbero essere utilizzati.

2)    Una parte delle risorse che verranno dal forte aumento dell’indebitamento andrebbero destinate a un intervento sensibile se non massiccio all’incremento della strumentazione e delle retribuzioni nella PA. Dagli insegnanti ai lavoratori delle Entrate, dai medici ai netturbini, senza aver paura delle accuse di foraggiamento elettorale, ma legando gli incrementi salariali a un miglioramento qualitativo nella formazione e nell’uso delle nuove tecnologie. Tali miglioramenti dovrebbero anche essere accompagnati da una redistribuzione dei lavoratori e, dove c’è necessità, di un aumento del numero. A chi obietta: “ma aumenti salariali e di occupazione non sono investimenti strutturali”, ricordo una semplice cosa: gli investimenti in capitale senza un aumento delle spese correnti per farli funzionare e mantenere sono soldi buttati ed è ora di smettere di tagliare nastri senza fornire le risorse per far funzionare ciò che si inaugura.


Ecco qua, queste le mie idee, ringrazio chi ha avuto la pazienza di leggere sino a qui.